Una sirena allo specchio

Esistono sensazioni a cui riesci a dare un nome solo dopo aver conosciuto il tuo corpo.
Da bambina il dolore dell’anima lo assimilavo a frequenti mal di pancia, o mal di testa, era un malessere psicosomatico che inconsciamente subivo guardandomi attraverso gli occhi degli altri.
Non mi conoscevo, ero troppo piccola per volerlo e quando iniziai a desiderarlo ebbi paura di ciò che potevo scoprire. Quella paura senza nome, rimase chiusa in soffitta ad aspettarmi all’appuntamento. Intanto c’era la mia famiglia a coccolare la mia immatura malinconia, quella sensazione in sordina che mi accompagnava sempre, come un’ombra e non capivo nemmeno cosa fosse, iniziavo a sentirla, a percepirla, ma l’ amore dei miei cari  non le dava nemmeno il tempo di affacciarsi dai miei occhi.
 Non è facile accettare l’idea di essere malati, a nessuna età lo è, ma in particolar modo quando dovresti trascorrere il tuo tempo a giocare e ti ritrovi, invece, a doverti difendere da qualcosa che nemmeno conosci, da quella spontaneità innocente che rende i bambini spietati… anche tu dovresti averla, ma la subisci, tuo malgrado, avendo l’unica colpa di essere troppo sensibile, a causa della tua diversità tra bambini sani. Loro non hanno colpe, ma nemmeno tu. Loro non sanno il male che ti fanno quando la maestra chiede ai tuoi compagni di mettersi in fila per due e tu rimani l’unica da sola poichè nessuno vuole darti la manina. Non lo fanno volutamente, ma tu soffri e comprendi già più di quanto dovresti, anche se, inaspettatamente, arriva qualcuno a salvarti, la prima mano che prende la tua, nascosta timidamente dentro la manica della camicetta e la stringe alla sua, come per rassicurarti da quella sorta di abbandono che dentro di te si sta  già insinuando. Sai perfettamente che quel gesto sarà il  primo passo verso te stessa. Sai che non lo dimenticherai mai. Sai che lei sarà tua amica per sempre. La tua prima vera amica.
Inizi a capire che anche il dolore ha le sue celesti ricompense.
Sai che mamma e papà ti spalmano di creme,di oli; ti portano dai migliori specialisti; combattono contro la cecità dei servizi sanitari, che continuano a ribadire che non esistono leggi capaci di far rispettare semplicemente dei diritti; si tengono sempre informati; accarezzano le tue mani ruvide; quella dolce riservatezza di chi ha sempre il timore di disturbare, di essere inopportuna; riempiono i tuoi piccoli silenzi con storie delle quali, stranamente, sei sempre tu la protagonista.
E mentre sei immersa in un profumato bagno caldo, con l’ennesimo prodotto in prova, dopo tanti sbagliati, ti ritrovi, nelle favole della mamma, essere la principessa di mondi incantati e in quell’angolo ovattato dall’amore, ti sembra quasi un privilegio quella pelle così secca da inaridirti dentro. Ma questa sensazione non puoi ancora capirla. Adesso sei la protagonista di un mondo che non esiste nella realtà, lo ritrovi solo nel cuore di chi ti ama. Quello reale lo guardi solo attraverso la finestra appannata del tuo bagno delicato. Non ti accorgi della differenza, poiché sei piccola e loro, mamma, papà e il fratellino che vorrebbe fare il dottore per guarirti, loro non ti lasciano mai, sono sempre con te. Se ci sono loro, nulla può farti male.
Certo, ti accorgi che molti sguardi non sono come gli occhi nei quali hai imparato a riconoscerti, ti accorgi che sono insistenti e quelle risatine, beh, probabilmente ridono per motivi loro, perché dovrebbero ridere di te? Non c’ è alcun motivo. Ma continuano a fissarti, è proprio di te che ridono, invece. Il tuo viso gia cremisi, divampa e le risatine aumentano. E le mani, se potessero parlare le tue mani, non basterebbero interi libri! Tutte quelle linee sul palmo, da nasconderle quando a scuola si faceva quel gioco angusto di misurarne la lunghezza della vita, dell’amore, della salute. Erano troppe e tutte ingarbugliate, trasposizione, forse, di quella che sarebbe stata la tua esistenza, ma in quei momenti avresti voluto essere trasparente e non doverti imbarazzare per qualcosa che faceva parte di te e di cui non avevi nessuna colpa. Ogni gioco diventava una prova di resistenza. Resistere alle lame di quegli sguardi, a quella monotona e ossessiva domanda se il tuo rossore fosse dovuto ad un’abbronzatura audace, ad una bruciatura,o ad un’ ustione, accompagnata da un ghigno difficile da dimenticare; resistenza all’incedere incalzante del cuore ad insulti svariati, pronunciati con un’invadenza tale da prevaricare ogni difesa e farti soccombere in una sorta di senso di colpa perenne. Resistenza che si andava ad aggiungere a quel pozzo di rugiada dal quale avresti poi attinto la tua futura forza.
E si accumula un malessere senza nome e i giorni trascorrono come una continua prova, nella quale devi dimostrare sempre qualcosa, perché quello che sei, credi  non sia abbastanza.
Tranne qualche sporadica eccezione, sei sola. Anche quando la stanza è stracolma di gente. Hai attorno a te una sorta di cerchio immaginario, ti avvicini agli altri, ma li vedi come attraverso una pesante lente, offuscata, alle volte frantumata, che deforma la tua visione delle cose, riconducendo a te ogni mancanza.
Allora impari a donare tutto ciò che vorresti ricevere, poiché il contrario non accade, o forse sei troppo impegnata a difenderti per vederlo.
Poi succede che cresci.
Non sai quando sia accaduto. Lo senti. Senti di essere già grande ancor prima di sapere perché.
Mamma e papà ci sono sempre. Non hanno mai smesso di esserci. Il fratellino non è diventato dottore, ma ti è stato vicino come un falco con i suoi piccoli, così come chi ti ama.
Cos’è cambiato allora? Perché quella sensazione di tepore ti sembra così lontana?
Non sei più quella principessa dei racconti della mamma. Sei una donna che cerca il suo corpo, perché solo tracciando i suoi contorni potrai  dargli una forma.
Ti accorgi che sei cambiata. Mentre i tuoi cari hanno continuano a  rimanerti fedeli, tu hai finito con il tradirli. Non il loro amore. Tradisci il loro bisogno di proteggerti, quando uscendo di casa, questa volta, sei totalmente sola e non rimandi le tue paure a quando rientrerai da quella porta, trovandoli ancora lì ad aspettarti. Questa volta tu non tornerai a casa, dopo le tue paure. Rimarrai a guardare il mare, a trattenere le lacrime o a piangerle davanti ad uno specchio per capire dove va a finire una lacrima quando sei sola.
Tante volte passeggerai costeggiando quel blu, tante volte gli chiederai perché, imparando che suono ha un silenzio e che una domanda può contenere in sé anche la sua risposta. Tante volte tradirai quegli occhi che ti aspettano, conservando quel pianto dentro ad un fazzolettino pregiato, come un segreto,sperando che i tuoi abbiano imparato anche a mentire per non ferirli. Ma anche se ti sembra di esserci riuscita, le loro labbra socchiuse nel rispetto del tuo pudore, ti faranno capire quanto c’è da rimanere scolari davanti alla verità di chi ci ama.
Poi ti accorgi di essere un contenitore di scarti. Negli anni li hai trattenuti tutti, soprattutto i più dolorosi: tutte le giornate no, le indelicatezze, gli sguardi taglienti, le frasette sussurrate ad orecchi sordi, tutti i tentativi di iniziare storie alle quali avresti voluto abbandonarti e dalle quali, invece, finisci, puntualmente, per essere abbandonata, poiché tutti temono di non essere pronti a tanta intensità. Non vogliono ferirti, dicono. Sei troppo speciale. Meriti di meglio. Ma cosa ne sanno loro di cosa tu voglia meritare? Cosa ne sanno di ciò che può ferirti, se non ti hanno dato nemmeno il tempo di presentarti?
Perché hanno la presunzione di decidere cosa sia giusto per te?
Allora succede che scegli.
Impari a scegliere. Quel rifiuto diventa il tuo rifiuto. E anche se nessuno te l’ha mai detto, tu decidi che il tuo corpo è uno scarto. Che nessuno vorrà mai toccarti, anche se nessuno si è mai accorto della tua malattia. Non importa. Tu sei la tua malattia, è dentro di te che s’insinua, anche se la tua pelle adesso è vellutata come una rosa. Non importa. Hai deciso. Hai scelto di chiudere anche l’unica porta che avevi lasciato socchiusa, sperando qualcuno la spalancasse.
Non lo sai spiegare perché. Sai solo il male che fa quell’aridità che dalla tua pelle si è insinuata nell’anima. E mentre tutti ti dicono che sei uno splendore, ricordandosi, a differenza di te, com’eri da bambina, tu ti convinci che non è così, perché solo tu sai cosa si sente ad avere l’anima arida. Non c’è acqua che idrati, o crema, o olio. Rimani sempre un passo indietro rispetto al mondo, o forse sei uno avanti, ma sei troppo modesta per ammetterlo.
Poi accade che incontri l’amore.
Lui s’innamora proprio di quello scarto, in uno dei tanti giorni di pioggia in cui hai dimenticato anche le chiavi di casa e non puoi ritornare; proprio in quell’istante  ti accorgi di quanto sia nulla la tua malattia, rispetto alla profondità con cui i suoi occhi ti guardano. Ti percepisci come un velo, trasparente, perché ciò che lui vede è la tua anima, è ciò che realmente sei. Capisci solo allora cosa voglia dire avere una malattia rara.
Lui è lì, come ad aspettarti, sulla strada del tuo ritorno, quella che si percorre quando si è da soli.
Prima di lui, qualcuno ti aveva voluta bene, ma si era fermato al punto in cui si rimane immobili nel rispetto delle tue paure, sempre con il solito timore di ferirti, ergendo, di contro, un muro invalicabile che non concede il salto, mentre proprio il metterle a nudo ti avrebbe insegnato a percepirti attraverso il tuo corpo.
Rispettare le tue paure era corretto, ma significava assecondarle.
Era necessario percorrere il fiume a ritroso.
 
Lui lo fece.
Lui fu la mia svolta.
Lui fu l’unico che non mi disse: “sei speciale”.
Lui fu l’unico che rischiò.
 
Così succede che impari ad amarti.

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